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Salaparuta,
Poggioreale, Gibellina, le città della Valle del Belice devastate dal terremoto
del 1968 e ricostruite ex novo poco distanti, secondo criteri di razionalità
e modernità inusuali per queste latitudini. Città piene zeppe di sculture,
architetture futuribili, strade oversize, slarghi sconfinati e piazze agorafobiche.
Quasi del tutto inanimate.
C’è una sensazione che ti accompagna ogni volta che metti piede in questi
posti. Non sai definirla subito, ti ronza nella testa, resta lì in attesa
che tu riesca ad acciuffarla mentre percorri le direttrici avveniristiche, rapito
dalla bizzarria dei colori e delle forme, dalla toponomastica inverosimile, e non
ricordi più se ti trovi a Trapani, in una landa del Midwest americano o in
una visione di Wim Wenders.
Poi capisci
cos’è quella sensazione. Lo capisci ogni volta che incroci una presenza, che
non siano le goffe macchine scarburate lanciate a tutta birra sui vialoni. Lo capisci
ogni volta che guardi negli occhi un vecchietto, quasi sempre solitario, appoggiato
a una parete o seduto su una panchina di foggia stravagante. In quello sguardo trovi
il baratro, uno sperdimento infinito, un precipitato di angoscia mista a rassegnazione.
Una domanda di senso ormai spenta, rimasta sospesa tra labbra serrate, neppure più
rivolta a te che pure una risposta potresti averla, visto che sei lì per lui,
ma che ormai è perduta per sempre dopo decenni di parole scadute. La sensazione
è che in questi luoghi l’uomo sia straniero, presenza incongrua di città
ideate come musei a cielo aperto, celebrazioni di utopie nate morte. È come
se un destino beffardo avesse spiantato nel sonno un intero conglomerato umano e
lo avesse innestato in un posto senza riferimenti, senza punti cardinali, senza più
nessuno degli abituali puntelli di significato. Terremotati.
Rimanere
terremotati è continuare per la vita ad accudire una faglia interna insanabile.
Identità frammentate, scomposte e ricomposte altrove, teletrasportate in luoghi
senz’anima. Ibridi di spazio-tempo non integrati, schegge di vita che un tessuto
sociale troppo pulito e rarefatto, progettato in laboratorio, non riesce a tenere
insieme. Nel Belice un’utopia visionaria, anche generosa, ha provato a ribellarsi
all’ineluttabilità di un destino fatto di macerie, ma ha finito col sovvertire
l’ordine delle cose, dei rapporti interpersonali, dei rimandi affettivi. Questo reportage
vuol essere una testimonianza, a supporto di tanti autorevoli pareri, affinché
non si rinnovi lo stesso errore in Abruzzo. Perché il terremoto non abbia
a colpire anche lì, come in Sicilia, due volte e per sempre. |
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